La recensione di Annalisa Ciuffetelli
Edoardo Oliva porta in scena ” Cαprò “
L’amore, il difficile rapporto col padre, il lavoro della terra, l’analfabetismo, la scienza e la religione,… conflitti dovuti al confronto tra diverse visioni del mondo, diverse culture antropiche e diverse estrazioni sociali sono le tematiche di “Cαprò”, interessante testo di Vincenzo Mambella il quale, allontanando semplificazione e linearità, ha strutturato questo monologo in una sorta di spirale vorticosa nella quale gli eventi sono esposti e poi ripresi, sovrapposti e poi raccontati da un unico personaggio: Caprò, appunto.
Si passa così dalla concretezza materiale dell’incudine e della terra aspramente insegnati dalla rozzezza paterna, alla carnalità del sesso rappresentato dalla moglie del maestro e dai racconti del fratello in una sorta di climax in cui il pathos è il culmine e il finale tragico è reso ancor più toccante dalla regia attenta e dall’interpretazione energica e intensa di Edoardo Oliva che da corpo e credibilità ad una storia finta, ma su basi storiche. Oliva, non solo asseconda la ricca tavolozza di colorazioni e sfumature del dramma, ma da vita a una polifonia di voci, localizzati con accento pescarese-chietino, in ricordi che corrispondono a flashback dei cari.
Caprò, indefesso lavoratore, emigra, ma non per cercare fortuna, bensì, consapevole della propria vita votata alla terra, per sfuggire ad un colpa, quella di essersi lasciato sedurre dalla moglie del maestro, precedentemente amata anche dal suicida fratello “Signurì”, il quale peraltro desiderava imbarcarsi su “Utopia”, nave su cui il nostro anti-eroe perde la vita in un naufragio.
Un testo stilisticamente, forse, d’altri tempi per una questione di crudezza con cui tratta gli eventi: una tragedia più che un dramma. E la cosa è abbastanza insolita per un monologo. Edoardo Oliva l’ha saputo valorizzare anche attraverso una regia veloce, dall’ottimo ritmo, serrato, con cui in scena egli stesso ha dato vita alla storia in circa un’ora e mezza di spettacolo.
Interessante l’aspetto scenografico e visivo (a cura di Francesco Vitelli), tant’è che la pièce si è svolta, come di consueto ormai da svariate domeniche (al punto da essere diventata un caso), al Bagno Borbonico del Museo delle Genti d’Abruzzo (visto che il Teatro Immediato non ha più una sede) a Pescara, donando alla messinscena un pathos aggiuntivo creato dell’ambiente museale coevo ai fatti raccontati: la fine dell’Ottocento, periodo, appunto, in cui molti italiani emigrarono in America.